Bentrovati. Anche stavolta io sono Marcello Conti e questa è Caffè Letterato, la newsletter su giornalismo culturale e dintorni.
Siamo a un passo da un traguardo simbolico per questo piccolo progetto: con la prossima newsletter facciamo cinquanta numeri. Sarà il caso di festeggiare in qualche modo, anche se come ancora non lo so. Ma certamente qualcosa mi verrà in mente nel corso della settimana.
Intanto, però, concentriamoci su questo di numero, con la rassegna dedicata principalmente a grandi scrittori americani da poco ritornati in libreria. Ci sono infatti ben due articoli dedicati a Philip Roth e alla tanto discussa nuova edizione targata Adelphi. E poi un pezzo su Joan Didion, con il suo libro inedito uscito qualche settimana fa e altrettanto discusso.
Buona lettura!
Rassegna🗞️
Il rebranding di Philip Roth
Quando, più di un anno fa, è stato annunciato che il catalogo di tutte le opere di Philip Roth passava da Einaudi ad Adelphi, la cosa ha sollevato parecchia attenzione e curiosità. Sappiamo tutti che Adelphi è una casa editrice che mantiene una sua "aura" particolare che influenza la maniera con cui i libri che ha in catalogo vengono percepiti. Ci si chiedeva, dunque, come lo scrittore americano, scomparso nel 2018, sarebbe stato "adelphizzato".
Poche settimane fa è uscita la prima ristampa di un libro di Roth marchiata Adelphi: una nuova edizione di Portnoy’s Complaint, ed è effettivamente evidente la volontà di operare una sorta di "rebranding" dello scrittore. Lo si evince già da i due elementi che spiccano ancora prima di aprire il libro: il titolo (che da Lamento di Portnoy com'era sempre stato conosciuto in Italia diventa soltanto Portnoy) e la copertina.
La scorsa settimana Snaporaz ha dedicato un dittico di articoli a questa operazione editoriale.
Il primo dei due pezzi è firmato da Fabrizio Patriarca e si concentra sulla traduzione della nuova edizione. L'articolo entra nel vivo delle questioni che una ritraduzione solleva, facendo confronti puntuali tra testo originale, traduzione vecchia (quella che fino a ieri leggevamo nella edizione Einaudi, firmata da Roberto C. Sonaglia) e traduzione nuova (di Matteo Codignola).
Non entro qui nei dettagli più degni di nota della nuova traduzione, che trovate già ampiamente approfonditi nell'articolo. Basti dire (riassumendo) che una delle idee fondamentali che stanno dietro al lavoro di Codignola è di restituire il presunto tono da "standup comedy" del romanzo di Roth. Il che significa puntare più sulla scorrevolezza della lingua, anche a costo di essere meno fedeli alle costruzioni sintattiche di Roth (il che, paradossalmente, finisce per indebolire, in alcuni casi, l'effetto comico originale).
Le traduzioni, anche le migliori, non raggiungono mai un valore oggettivo, perché di fatto non intendono esprimerlo. Le brutte fedeli, le belle infedeli, le brutte & infedeli (orrore). Preferite una brutta fedele o una bella infedele? Il valore sta quasi tutto in cosa chiediamo a una traduzione. Dando per scontato che la coppia bella-e-fedele è l’eccezione che conferma la regola, non ci resta che interrogare ognuno il proprio gusto. Si possono discutere – non si è mai smesso di discuterle – questioni attinenti al rispetto. Cosa porto nella mia lingua? Lo stile di un autore o la sua cultura di appartenenza? La traduzione di Codignola prende di petto il carattere essenzialmente comico del Portnoy, ma talvolta finisce per disinnescarlo. L’idea-guida è che quella di Alex Portnoy sia la «standup più divertente e irrefrenabile mai messa sulla pagina» (così la bandella), che è un modo per aggiornare il libro alla sensibilità di lettori che hanno incamerato cicli e cicli di cabarettisti (anche se ormai fa figo chiamarsi stand-up comedians).
Il secondo articolo è di Valentina Notarberardino, e questa volta si parla di un altro aspetto molto discusso del nuovo Portnoy, ovvero la copertina, molto lontana da quelle che fino ad oggi avevano accompagnato i libri di Philip Roth, ma se vogliamo anche dallo stile Adelphi.
Qui la volontà di fare un rebranding di Roth è ancora più evidente. La scelta della copertina, del resto, è solo un tassello della campagna marketing che ha accompagnato il lancio del libro e che si direbbe abbia funzionato stando a vendite (il volume è entrato immediatamente nella top 5 della narrativa straniera) e il dibattitto che ha suscitato.
Oltre a ricostruire questa campagna marketing, il pezzo offre un interessante excursus su tutte le copertine che hanno accompagnato Il lamento di Portnoy in Italia. Il che fa emergere ulteriormente quanto di rottura sia stata la scelta per questa nuova edizione e soprattutto quanto una copertina riesca a dire delle intenzioni dietro a una operazione editoriale senza comunicarlo esplicitamente. Sicuramente questo caso - al di là del parere giudizio che si può dare alla copertina in sé - è molto interessante per riflettere su quanto oggi la copertina sia una componente fondamentale della narrazione che si costruisce intorno ad un libro
Con le copertine – e ancor più con quelle che, come in questo caso, riscrivono l’immaginario di un autore – a mio avviso il punto non è se siano belle o brutte, ma se siano giuste o sbagliate per quel libro e per quell’autore in quel preciso momento storico. Una copertina sbagliata ma graficamente gradevole può nuocere di più, e quindi passare inosservata, di una copertina giusta ma spiazzante. E quella scelta da Adelphi, centrata sul linguaggio visivo del fumetto, a me pare efficace, anche se, per molti, resta indigesta e insensata. Si fa guardare, incuriosisce, respinge, divide – ed è proprio per questo che attrae lo sguardo. Volevamo una copertina rassicurante? Una comfort zone visual-letteraria? Personalmente mi aspettavo una scelta forte, e così è stato: un po’ irriverente, come il libro stesso.
Didion segreta
Altra uscita libresca di questa primavera che ha fatto discutere: Diario per John (Notes to John in originale), volume postumo di Joan Didion uscita in contemporanea internazionale lo scorso aprile (in Italia è stato pubblicato da Il Saggiatore).
Uno dei temi di cui si è dibattuto è sulla opportunità etica di pubblicare qualcosa per cui l'autrice non ha mai dato l'autorizzazione e che per altro rappresenta un tipo di scrittura molto privata: si tratta infatti del resoconto fedele delle sedute con lo psichiatra che Didion svolse a partire dalla fine degli anni '90, in cui si parla senza filtri letterari di problemi personali e in particolare del rapporto difficile con la figlia Quintana, che soffriva di gravi problemi di alcolismo e che sarebbe morta prematuramente qualche anno dopo.
Al di là di come la si pensi, un buon modo per avvicinarsi alla lettura di questi scritti inediti di Didion può essere Casa desolata, articolo di Arianna Montanari uscito su Il Tascabile. Un pezzo che illustra l'interesse (anche letterario, pur essendo appunto testi non letterari) di questo libro. Ad esempio confrontandolo con un altro libro (questo sì, pubblicato dall'autrice) di Didion, Blue nights, che affronta lo stesso tema di Diario per John, ma lo fa attraverso la raffinatissima rielaborazione letteraria di cui era capace. Il libro postumo appare come il lato oscuro e profondo di quello pubblicato: confrontali significa penetrare il processo letterario con cui Didion riusciva a trasformare in «controcanto cristallino», cioè che nella vita privata era «duro e pesante», «grumo di dolore compatto come un monolite».
Lontano da qualunque gusto voyeuristico per il dolore altrui, Montanari suggerisce che queste pagine vadano lette come se si trattasse di una trasmissione a bassa frequenza: una voce che si fa udire da un’altra stanza. Il lettore diventa in qualche modo partecipe di una seduta analitica, come se l’esperienza di Didion potesse far da specchio a chi legge, producendo echi, empatie, ricordi.
Di fronte alla meticolosa autodistruzione messa in atto dalla figlia, Didion si ritrova persa, improvvisamente fragile, incastrata nella dialettica feroce fra il desiderio di proteggere la figlia e il dubbio assillante di averla soffocata sotto una campana di vetro per tutta la vita. “Ho detto che non capivo dove finiva l’istinto di protezione e iniziava la mania di controllo. Agli occhi di un genitore erano la stessa cosa”, scrive. Gli appunti di Didion sono un labirinto animato dai sensi di colpa (la parola “colpa” compare 91 volte) e dagli interrogativi che ossessionano chiunque abbia un alcolista in famiglia e si domandi perché abbia cominciato a bere, come si possa aiutarlo, e se non ci sia forse qualcosa di sbagliato che circola nel DNA condiviso, dove stia la falla, il buco. Joan Didion e Quintana Roo Dunne non erano legate dal corredo genetico, ma questo non sollevava l’autrice da un altro senso di responsabilità, anche più opprimente.
In breve
Su Theodoros: l'epopea postmoderna di Mircea Cărtărescu
Una analisi critica del videogioco del momento
C'è un nuovo interesse per il linguaggio dei profumi
Il cinema dei kids on bikes
E per oggi è tutto.
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Ci vediamo tra una settimana con il numero 50!