Ciao e bentrovati. Io sono Marcello Conti e questa è anche stavolta Caffè Letterato, la newsletter su giornalismo culturale e dintorni.
Ritorniamo dopo una settimana di pausa perché lo scorso weekend l'ho passato al Salone del Libro di Torino. Come sempre esperienza interessante, ma anche stancante. Dopo tre giorni passati nel caos e nella folla della fiera torinese, tornare nella mia cameretta romana a lavorare in solitaria sembra puro relax.
Ma passiamo al numero di oggi e alla rassegna che copre gli articoli delle ultime due settimane. Nei primi due dei quali torna un argomento di cui sembra non si finisce mai di parlare, la crisi della critica
Rassegna🗞️
Sulla critica/1
Dicevamo della crisi della critica letteraria. La critica letteraria è in crisi? Si direbbe di sì. Ma si direbbe che questa crisi duri da parecchio, forse da sempre. Per dire, Notizie dalla crisi era il titolo di un libro di Cesare Segre, datato 1993 in cui si parlava (anche) dello stato di salute della critica e in cui si dava la crisi come un dato già riconosciuto e assodato da qualche tempo. E volendo si potrebbe risalire anche più indietro per trovare esempi simili.
Quindi è probabile che bisogna intendere la critica letteraria come qualcosa in uno stato di crisi perenne. In ogni caso va aggiunto che in ogni epoca la crisi prende una sua forma peculiare. Sulla forma che ha assunto in questi anni (prendendo in considerazione uno dei suoi formati più tipici, cioè la recensione) è dedicato questo articolo apparso su Lucy: Le recensioni in Italia stanno diventando inutili di Loredana Lipperini.
Come in suoi altri articoli, Lipperini è particolarmente brava a fare il punto della situazione sul panorama culturale italiano e mostra come il problema del genere-recensione si leghi ad altri problemi del nostro sistema culturale ed editoriale, in primis la sovrapproduzione libraria: la pubblicazione di una mole tale di titoli da rendere impossibile per il mercato di riassorbirli, figuriamoci per la critica di monitorarli in maniera esaustiva.
E poi c'è la questione di una accondiscendenza di fondo che ha reso rarità non solo le stroncature, ma anche le analisi più profonde, in cui si soppesano forze e debolezze di un testo. Ma nell'uniformità dei giudizi positivi viene meno il ruolo della critica di orientare efficacemente i lettori, oltre alla possibilità delle recensioni di sollevare dibattiti e discussioni (che vengono molto più facilmente catalizzati dai giudizi almeno parzialmente negativi )
Dunque non si fanno più stroncature? Sì, se ne fanno: ma quasi sempre su alcune riviste online, o su pochi quotidiani e da parte di pochi critici. Seconda domanda: ha senso stroncare? Per meglio dire: ha senso stroncare in un panorama dove i romanzi si fanno fuori da soli perché non riescono a sopravvivere più di una settimana in libreria o nella memoria dei lettori stessi? La risposta potrebbe essere questa: ha senso una stroncatura articolata, non malevola verso la persona. Ha senso una restituzione leale di quello che funziona e quello che non funziona, nel reciproco rispetto: può sembrare melenso, certamente, e può dare la stura alle solite considerazioni su quanto erano belle le stroncature di una volta, signora mia. Ma questo servirebbe, perché ancora una volta i tempi sono cambiati.
Sulla critica/2
Anche Andrea Long Chu parla di crisi della critica in questo pezzo, L'arte per l'arte, la critica per tutto il resto che è una anticipazione di Authority. Scritti sull'avere ragione, una raccolta di saggi dell'autrice americana, in uscita tra pochi giorni per Nero.
Riflettendo sullo stato della critica culturale Long Chu esplicita ciò che dicevamo poco sopra: c'è crisi, ma non è una novità. Per dimostrarlo recupera citazioni e autori dal passato che già lamentavano questa crisi, risalendo fino all'inizio del Novecento e ancora più indietro. La crisi della critica, quindi, è una malattia cronica (di volta in volta attribuita a cause diverse, oggi sono i social, in altre epoche furono i quotidiani o al media nuovo di turno), ma anche una strategia retorica sempre valida.
Ma occuparsi di crisi della critica è anche un modo con cui gli intellettuali si chiudono nella propria autoreferenzialità. Il che è particolarmente discutibile mentre nel mondo sono in corso crisi ben più gravi e reali. Come quello che sta accadendo a Gaza. La critica culturale può riacquisire senso appunto rivolgendosi più spesso e con più forza alla realtà del nostro presente, il che vuol dire anche prendersi la responsabilità di essere apertamente politica.
Perciò nella critica non si può vietare l’accesso alla politica. Si può solo regolare il flusso del traffico. L’idea dell’arte per l’arte, che continua a godere di grande prestigio tra i letterati di oggi, può sembrare un tranquillo isolazionismo; in realtà è un frenetico programma di deportazione. Un esempio eccellente si trova nell’introduzione a un volumetto del 1941 dal titolo The Intent of the Critic, curato da Donald Stauffer, un critico letterario minore della metà del secolo. «Quando incontriamo uno scrittore che è soprattutto o esclusivamente il predicatore, il politico, il sociologo, lo psicologo, il filosofo, il retorico, il commesso venditore, il patrono, il parente consanguineo o il compagno di scuola, dobbiamo riconoscerlo come tale» scriveva Stauffer. È chiaramente un invito alla paranoia. Se un critico dice che l’Amleto è una prova del lutto filiale di Shakespeare, è un inconsapevole Freud. Se un altro dice che l’autofiction drammatizza l’alienazione del tardo capitalismo, non è altro che Marx con gli occhiali di Groucho. Solo una vigilanza costante terrà lontano il cattivo critico. Se non gli si può impedire fisicamente di scrivere recensioni, allora dev’essere dichiarato estinto.
Il senso dello Sgargabonzi per la realtà
Del resto si può decidere anche di non interessarsi realtà e proprio per questo riuscire ad afferrarla ad un livello più profondo.
Ho trovato in questo senso ho trovato illuminante questa intervista ad Alessandro Gori apparsa sulla newsletter di Iconografie. Alessandro Gori (noto anche come Lo Sgargabonzi) è, secondo una definizione di Claudio Giunta che Gori stesso ha trasformato in una specie di meme, "il più grande autore comico italiano". Personalmente è in generale uno dei miei scrittori italiani viventi preferiti. Adoro il tipo di lavoro che fa sul linguaggio: la maniera con cui riesce a restituire il chiacchiericcio che ci circonda. È una scrittura mimetica di altissimo livello, in cui riesce a mettere su carta voci che hanno una scarsissima consapevolezza di sé. Cosa difficilissima da fare, perché per riuscirci è necessario mantenere una naturalezza che l'imitazione o la parodia (che di solito sono forme letterarie che, al contrario, richiedono una grandissima auto-consapevolezza) tendono a cancellare. Il talento di Gori, a mio avviso, è questa capacità di aderire a voci ridicole, ma senza mai usare il falsetto.
Iconografie, invece, è una «rivista sullo spirito del tempo». Come lascia intuire il nome si tratta di un progetto editoriale interessato a indagare non solo il presente in sé, ma soprattutto i segni che questo presente produce, le maniere in cui la nostra epoca si auto-rappresenta. Con particolare attenzione per le immagini che sembrano assurde, quelle in cui, per usare una frase fatta, "la realtà supera l'immaginazione". Forse è questo che gli ha portati a intervistare Gori, in quanto narratore di "realtà assurde".
Ma queste premesse, probabilmente alla base dell'intervista, mi sembrano frutto di un equivoco. Ed è questo che rende l'intervista interessante: ruota tutta intorno a un fraintendimento. L'intervistatore vuole indagare il modo con cui Gori rielabori la realtà nella sua scrittura, ma Gori non fa altro che smarcarsi da questo presupposto affermando che lui non ha nessuna intenzione di rielaborare la realtà. Se le domande vertono su cosa significa fare una comicità assurda mentre il mondo diventa sempre più assurdo, le risposte ribadiscono più volte disinteresse verso il mondo: «Il mio panorama sulla realtà è sempre stato volutamente ristretto, non ho mai dedicato molto tempo a guardare fuori dalla finestra»; «Ne so molto poco. Non guardo il telegiornale né la tv in generale».
Eppure nei racconti di Gori si coglie qualcosa della realtà. In molti casi qualcosa che sembra più profondo e centrato di quello che riescono a trovare molti scrittori che invece vogliono programmaticamente "raccontare la realtà". E forse è proprio questo il trucco: la mancanza di una intenzione precisa, ma solo un buon orecchio, capace di captare le cose e di restituirle per quello che sono, non appesantite dalla volontà di spiegare o, peggio, giudicare. Quella di Gori è una satira efficacissima sui nostri tempi proprio perché non c'è l'intenzione di fare satira. Prende il bersaglio perché non lo mira.
In breve
Il paradosso dei social: non ci piacciono ma ci servono
«Come se nulla fosse»: su guerra, traumi e adattamento
La poesia secondo Aldo Nove
Una intervista-fiume a Daniele Manusia
Il cinema contemporaneo ha un problema con gli easter eggs
Comodino (letture in corso)📚
Periodo di letture varie. Negli scorsi giorni ho finito di leggere due libri: il primo è Sabbie bianche di Geoff Dyer (Il Saggiatore), una raccolta di scritti di viaggio del saggista americano. L’altro è Chiromantica medica di Alessio Mosca (Nottetempo), una raccolta di racconti dominati da un senso di weird e inquietante.
In questi giorni sto anche leggendo La scuola è politica (Effequ), che ho preso in anteprima al Salone del Libro e che uscirà tra pochi giorni. Si tratta di una sorta di abecedario che raccoglie e analizza le più importanti questioni aperte relative alla scuola di oggi.
E per oggi è tutto.
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Anche la prossima settimana probabilmente la newsletter salta (è un periodo così), quindi ci vediamo tra due settimane!