#3 Stare sul pezzo (ma anche no)
Di un pezzo mancato e su come a volte non rincorrere le notizie sia meglio
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Caffè Letterato è per tanti versi ancora un work in progress. Non so ancora bene quello che diventerà. Molto dipenderà anche da consigli e feedback che riceverò da voi. Questa settimana un articolo che volevo scrivere e che poi non ho scritto mi ha dato lo spunto per mettere giù un certo mio modo di intendere il giornalismo culturale che è anche una indicazione programmatica per questa newsletter.
C'è tutto qui sotto. Fatemi sapere che ne pensate. E adesso prendiamo la tazzina e cominciamo
Stare sul pezzo (ma anche no)
Inizio parlando di un pezzo che non ho scritto. Circa una settimana fa è stato annunciato il Premio Nobel per la Letteratura di quest’anno, andato al norvegese Jon Fosse, scrittore che personalmente non conoscevo (qui qualche informazione generale). Ma ancora prima dell’assegnazione del premio avevo in programma di dedicare questo numero della newsletter al neo-Nobel.
Il fatto che non avessi letto nulla di Fosse non era un problema, dato che la mia idea non era dare una mia opinione sull’autore vincitore (che in fondo, anche se fossi nella posizione di poterla dare, varrebbe poco), bensì cercare di fare una panoramica su cosa si dice di Jon Fosse nella stampa italiana. Insomma, una raccolta degli spunti più interessanti negli articoli seguiti al conferimento del Nobel.
Ho rinunciato a farlo perché di spunti interessanti non ne ho trovati. Gli articoli su Fosse ovviamente non sono mancati, a latitare sono stati i contenuti incisivi. Quasi tutto quello che ho letto peccava di genericità: non si andava mai oltre le informazioni essenziali e un po’ di classica retorica del grande scrittore. Di cosa renda Fosse uno scrittore diverso da altri (partendo dal presupposto che un vincitore di Nobel può anche non essere un grande scrittore in senso assoluto, ma certamente è uno scrittore peculiare) non ho ricavato nulla. Certo, si può obbiettare, per saperne di più non c’è che leggere i suoi libri: verissimo, ma di certo gli articoli che ho letto non stimolavano molto a farlo.
Evidentemente Jon Fosse è autore poco conosciuto in Italia, anche tra gli addetti ai lavori, e la necessità di licenziare i pezzi entro poche ore dall’annuncio della sua vittoria hanno obbligato testate e giornalisti a cavarsela col poco che sono riusciti a mettere insieme. Ma qui si apre un punto a mio avviso fondamentale per il giornalismo culturale: quello della necessità (o meno) di stare sul pezzo.
Quello culturale è forse l’unico giornalismo che non ha il dovere di inseguire le notizie. Anzi, delle notizie può fare a meno e, addirittura, quando ne fa a meno è meglio. Insomma, lo “stare sul pezzo” non solo non gli è necessario, ma è perfino attitudine da disincentivare. Perché il giornalismo culturale funziona e ha senso solo nella misura che è frutto di approfondimento e studio. La “notiziabilità” è invece elemento superfluo, quando non deleterio proprio perché costringe alla fretta e alla superficialità per stare dietro al ritmo frenetico delle news. E infatti quelle che sono le “notizie” del campo culturale (i premi, appunto, ma anche la morte di personaggi importanti, gli eventi, l’uscita di libri o film molto attesi, eccetera) tendono a produrre gli articoli più scialbi.
Scrivo questo anche per spiegare una scelta editoriale di questa newsletter su cui, in fase di progettazione, sono stato a lungo incerto. Dare o no spazio alle notizie del mondo culturale? Mentre elaboravo l’identità da dare a questo spazio (processo, peraltro, ancora in corso) ho per un po’ valutato la possibilità di dargli una sorta di “funzione di servizio”, aiutando i lettori a rimanere aggiornati sulle ultime cose. Poi è prevalsa la convinzione che quando si tratta di cultura l’ansia di restare aggiornati è un’attitudine perniciosa.
Per questo nella rassegna di articoli che propongono in ogni numero (e che è, per come la ho intesa, la parte più importante della newsletter) prevarranno sempre i pezzi sì recenti, ma che fanno a meno di appigli alla stretta attualità.
Rassegna 🗞️
Sulla razionalità (non utilitaristica) del soprannaturale: il pensiero di C. S. Lewis, Simone Weil e Ernesto De Martino
Da armocromia a woke, ecco le nuove parole appena entrate nel dizionario
Per cambiare il mondo ci vuole immaginazione, ce lo insegnano i pirati
Come ti racconti i ricchi
Nell’epoca della post-verità nei prodotti culturali si cerca l’effetto-realtà
Diario di lettura 📖
Il saggio come genere della libertà e dell'avventura. Il saggio procede per tentativi, stabilisce le sue stesse regole mentre avanza, è rigoroso ma dettandosi da solo i termini del proprio rigore. Alla fenomenologia e alla tecnica di questo genere è dedicato Scrivere la realtà. L'arte del saggio perfetto (in originale ha il più sobrio titolo Essayism), di Brian Dillon, edito da Il Saggiatore nella traduzione di Andrea Sirotti.
Da buon meta-saggio il libro di Dillon presenta tutte le caratteristiche fondamentali del genere che sta descrivendo: l'oscillazione tra precisione e dispersione, la tendenza alla divagazione, l'ambizione di conoscenza esaustiva ma anche la vocazione all'incompletezza e alla frammentarietà. Ma soprattutto la natura ibrida: l'analisi serrata delle pagine degli autori che Dillon sceglie come riferimento (solo per citarne alcuni tra i più noti: Susan Sontag, Roland Barthes, Virgina Woolf, Georges Perec, Joan Didion) si alterna con malinconiche digressioni autobiografiche (anche questo del tutto coerente con lo spirito del saggio, considerando che il genere tradizionalmente nasce con un autore così incline all'autoanalisi come Montaigne).
Nonostante quello che dice il sottotitolo dell'edizione italiana il libro non contiene alcuna "arte del saggio perfetto". Il saggio è genere che esclude la perfezione di una forma compiuta (come può essere quella narrativa di un romanzo o metrica di una poesia). L'impressione che se ne ricava che per scrivere saggi più che di certe tecniche ci sia bisogno di un certo mood intellettuale.
Una citazione per concludere 🖋️
E poiché d’altra parte non c’è speranza che idee così lontane possano riunirsi e fondersi, conviene rassegnarsi a una crisi perpetua e sempre più grave della civiltà. Rinunciamo dunque a un ritorno alla omogeneità delle idee, ossia a un tipo passato di civiltà, e adoperiamoci a far convivere nella maniera meno cruenta le idee più disparate, ivi comprese le idee più disperate
Alberto Savinio
E anche questo secondo caffè è arrivato alla fine. Ci si rivede tra due venerdì.
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Alla prossima e buone letture!