Ciao. Benvenuti o bentornati su Caffè Letterato, la newsletter che si occupa di giornalismo culturale e dintorni.
Prima di iniziare volevo segnalarvi una mia collaborazione con un'altra newsletter: di . Nel numero in questione (che trovate qui) si parla di booktok e di come sta influenzando il modo di leggere delle nuove generazioni.
Detto questo vi lascio alla rassegna, che oggi è piuttosto ricca, e poi al tema del numero.
Rassegna 🗞️
Scritture di viaggio, tra realtà e reinvenzione
Michele Mari, Alessandro Piperno e Walter Siti: tre romanzieri italiani contemporanei a confronto
Qualche bilancio conclusivo del Salone del Libro di Torino 2024
Ah, è iniziato il Festival di Cannes
Addio a Roger Corman, il maestro dei B-movie che ha segnato la storia del cinema
Frammentri di un (nuovo) discorso amoroso
Houellebecq racconta i grandi rifiuti (al sesso e al denaro) di H. P. Lovecraft
Rivalutiamo l’uomo primitivo
Il Giappone sta togliendo alla Disney lo scettro dell’intrattenimento cozy
Solo l’inizio
Dato che la settimana scorsa c'è stato il Salone del Libro di Torino parliamo di libri, anzi parliamo di lettura. Anzi parliamo del modo in cui di solito si parla di libri e di lettura.
Devo dire che fin da giovanissimo (pur essendo già quello che viene definito, usando il termine dato dalle segmentazioni mercato, un lettore forte), ho sempre trovato abbastanza insopportabile la retorica che solitamente circonda la lettura. Quella che ti vuole spiegare la bellezza e l'importanza di leggere. L'ho sempre trovata zuccherosa, enfatica, ma soprattutto mi sembra che non colga mai il vero punto; che esalti genericamente la lettura ma che non sappia indicare dove stia il suo autentico valore specifico.
Per capirlo bisogna appunto smarcarsi dalla retorica e magari provare a smitizzare un po' la lettura stessa, ripulire i libri da quella patina che puzza un po' d'aula scolastica e che li carica di un'aura sacrale posticcia, per cui leggere sarebbe una cosa buona e bella in sé. Si potrebbe iniziare a dire che sì, leggere è bello, ma che ha valore soprattutto nella misura in cui è l'inizio di qualcos'altro.
Sto riprendendo la teoria di un autore che se ne intendeva in fatto smitizzazioni, Marcel Proust, e in particolare da Sulla lettura, uno scritto realizzato inizialmente come introduzione all'edizione francese di un libro di John Ruskin, poi pubblicato nel 1905 come articolo e infine diventato un saggetto autonomo.
Proust parte dalla concezione di lettura, piuttosto classica, di Ruskin: leggere significa sostanzialmente poter avere conversazioni con grandi menti di ogni epoca, senza limiti temporali o geografici. Ma secondo Proust dire questo è troppo poco. Secondo lui Ruskin «non ha cercato di penetrare fino in fondo l'idea di lettura. Ha voluto soltanto, per insegnarci il valore della lettura, raccontarci un bel mito platonico».
Proust fa un passo avanti mettendo l'accento su una caratteristica fondamentale della lettura che è proprio ciò che la distingue da una vera conversazione: la solitudine. Leggere è il miracolo di una comunicazione in solitudine: permette, cioè, la ricezione del pensiero, di un nutrimento intellettuale, senza la dispersione che la compagnia comporta.
La differenza essenziale tra un libro e un amico non è la maggiore o minore saggezza reciproca, ma il modo in cui comunichiamo con loro, la lettura, al contrario della conversazione, rappresentando per ognuno di noi la ricezione del pensiero di un altro, ma in solitudine, continuando a godere della forza intellettuale che si possiede nella solitudine e che la conversazione disperde immediatamente, continuando a poter venire ispirati, a proseguire il fecondo lavoro dello spirito che opera su se stesso
Qui sta il punto: entrare in contatto con il pensiero contenuto ci permette di "venire ispirati" per potere proseguire "il lavoro dello spirito" che dobbiamo compiere da soli e che nessun libro può compiere per noi. La vera sostanza non sta nel libro, ma negli spazi di pensiero che il libro ci apre e ci indica e che possiamo e dobbiamo percorrere da soli.
Proust parla appunto del «ruolo a un tempo essenziale e limitato che la lettura può avere nella nostra vita spirituale». La grande forze della lettura è anche il suo limite: è soltanto l'inizio di un lavoro intellettuale personale. Ciò che per un libro è la fine, per noi è l'inizio. Quello che un libro ci deve dare soprattutto è un incentivo a continuare con le nostre forze.
«Sentiamo benissimo che la nostra saggezza comincia là dove finisce quella dell'autore e vorremmo che ci desse risposte, mentre può darci soltanto desideri». La lettura, insomma, funziona fin tanto che alimenta il desiderio di pensare.
Dunque, «fino quando la lettura rimane l'iniziatrice le cui chiavi magiche aprono per noi nelle profondità di noi stessi la porta delle dimore in cui non avremmo saputo penetrare, il suo ruolo nella nostra vita è salutare». Laddove invece si limita a dare risposte, a fornire soltanto una conoscenza già digerita e impacchettata, assecondando l'illusione che la verità sia qualcosa di esterno, qualcosa che sta nei libri e a cui si perviene leggendo, e non il frutto di un incessante lavorio interiore, quel che tutt'al più può servire è ad accumulare un eruditismo sterile.
Mi piace questa idea di lettura come "generatrice di desiderio". Leggere tanto non ci rende più intelligenti ma più desiderosi di usare l'intelletto. Significa che la lettura diviene tanto più preziosa quanto più il contesto intorno tende ad addormentare il pensiero, a generare apatia dell'intelletto. Il che vuol dire che la rende più preziosa oggi. Perché nell'epoca del capitalismo cognitivo e della economia dell'attenzione, dove sono in moto forze potenti che lucrano sulle nostre funzioni intellettuali e così facendo ce ne espropriano, leggere può essere il primo (solo il primo!) passo per riprendercele.
E anche oggi il caffè finisce qui.
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