Ciao. Ben ritrovati su Caffè letterato, la newsletter su giornalismo culturale e dintorni
Oggi inizio ricordandovi che la settimana prossima c'è il Salone del Libro di Torino. Io sarò là sicuramente venerdì 10 e sabato 11 maggio. Quindi se qualcuno di voi dovesse passare per il Salone in quei giorni e, se ne ha voglia, possiamo trovarci per un saluto o due chiacchiera. Nel caso basta scrivermi rispondendo a questa email.
Detto questo vi lascio alla newsletter. Buona lettura!
Rassegna 🗞️
Nicola Lagioia ricorda Paul Auster
Di intellettuali sedotti e rovinati
Gli scherzi (volontari e involontari) che può giocare l’arte contemporanea
La televisione americana sperimenta nuovi ibridi di realtà e finzione
L’ottimismo di Salman Rushdie
Il petrolio, ovvero la droga dell’umanità
Pare che l’inconscio si disinteressi della politica
L’eredità de I sette samurai
E per finire parliamo di ping-pong
Nota sull’idealismo
Si può essere idealisti senza essere ingenui? È una domanda che mi faccio spesso e a cui non sono mai riuscito a darmi una risposta definitiva. E, viceversa, è forse il cinismo sempre al riparo dall'ingenuità? Non esiste forse anche una ingenuità del cinismo, certamente peggiore dell'ingenuità dell'idealismo?
Specifico che tra idealismo e cinismo io vedo una differenza che sta tutte nelle motivazioni per cui si fa qualcosa: molto semplicemente con "essere idealisti" intendo il fare le cose che si ritengono giuste e con "essere cinici" fare quelle che si ritengono convenienti.
Immagino che per quasi ogni ambito esistano vie idealiste e vie ciniche. Certamente il principio vale nella cultura, anzi assume una importanza particolare laddove nel lavoro culturale i valori che lo motivano lasciano sempre il loro marchio sul prodotto finale, per cui esistono prodotti culturali idealisti e prodotti culturali cinici. Come riconoscerli? In genere i prodotti cinici sono quelli che assecondano (o inseguono) il mercato (da qui si potrebbe sostenere che il marketing sia la scienza del cinismo).
Pensare di fare cultura in maniera idealista sarebbe dunque ingenuo? No, tutt'altro, risponderebbe Maria Popova.
Facciamo un passo indietro. Maria Popova è una scrittrice, poetessa, critica di origine bulgara ma residente negli Stati Uniti. A renderla un nome importante nel campo della divulgazione culturale è stato soprattutto Brain Pickings, un blog nato nel 2006 e tutt'ora attivo (anche se negli ultimi anni ha cambiato nome in The Marginalian) in cui fa principalmente quello che oggi viene chiamato content curation - cioè la raccolta e segnalazione di cose interessanti - soprattutto in ambito culturale-letterario.
Un pezzo uscito su Brain Pickings diventato piuttosto famoso è quello con cui Popova festeggiava i nove anni del blog riportando le nove lezioni più importanti apprese portando avanti il suo progetto di divulgazione culturale (qui lo trovate anche tradotto).
Lascio a voi scoprire le prime otto lezioni, per andare subito alla nona, che riporto integralmente:
Non avere paura di essere idealista. C'è molto da dire sulla nostra responsabilità in quanto creatori e consumatori di quella costante dinamica interattiva che noi chiamiamo cultura. L'impresa commerciale ci condiziona a credere che la strada per il successo sia soddisfare la domanda esistente - date alle persone le immagini dei gattini, ci dicono, perché le immagini dei gattini sono ciò che le persone vogliono. Ma, E.B. White, uno dei nostri ultimi grandi idealisti, aveva assolutamente ragione quando mezzo secolo fa affermava che il ruolo dello scrittore è di elevare le persone e non di portarle a un livello più basso - un ruolo questo che ognuno di noi è chiamato a ricoprire con urgenza crescente qualunque sia l'ingranaggio che rappresentiamo all'interno della macchina sociale. L'offerta crea di per sé la domanda. Solo producendone continuamente l'offerta possiamo sperare di aumentare la domanda di sostanza contro la superficialità - nelle nostre vite personali ma anche in quel sogno collettivo che si chiama cultura.
Popova evidentemente si fa meno problemi di me sul pericolo di essere ingenui e invita a scommettere sull'idealismo. Invita a «non avere paura», implicando che l'idealismo sia un scelta di coraggio. Il che farebbe pensare che, viceversa, il cinismo sia una tattica pavida.
E in effetti nel lavoro culturale essere cinici significa prendere la strada sicura, cercare di minimizzare i rischi seguendo ciò che indica il mercato o i trend del momento. Essere idealisti, invece, vuol dire tracciarla una strada, senza indicazioni sicure, affidandosi solo alle proprie incerte convinzioni.
Perché scegliere di essere idealisti allora? Be', innanzitutto, per la definizione stessa di idealismo che abbiamo dato poco sopra: perché è giusto farlo. Chi si limita a «soddisfare la domanda esistente», a dare alle persone ciò che le persone chiedono (siano immagini di gattini, romanzi mediocri o informazione superficiale), non sta rendendo un buon servizio a nessuno.
Tutte le mie esperienze culturali più esaltanti (quelle che effettivamente mi hanno - come dice Popova citando White - "elevato", cioè hanno fatto evolvere il mio gusto o il mio pensiero) sono sempre state in una certa misura delle scoperte: si è trattato sempre di trovare qualcosa che non stavo cercando, che non avrei richiesto perché non ne ero a conoscenza finché non l'ho incontrata. Sono queste le esperienze che vorrei fare quando mi approccio a prodotti culturali. E, se a mia volta voglio fare cultura, è giusto tentare di darle anche agli altri.
Esiste, poi, anche un ordine di considerazioni più pragmatiche. Il mercato del cinismo è perennemente saturo, in cui è difficile farsi spazio tra i concorrenti. È questo che rende spesso “fare quello che conviene” meno conveniente di quanto appaia, nel non considerarlo consiste la possibile “ingenuità del cinismo. L'idealismo è invece una nicchia libera, non da conquistare ma da costruirsi. Si può fallire o riuscire, ovviamente, ma per lo meno il risultato non è l’esito di una competizione.
Cose mie
La settimana scorsa è uscito un mio articolo per Rivista Stanca, una interessantissima rivista letteraria nata da poco.
Mi sono divertito a rileggere Homo ludens, un saggio del 1938 dello storico Johan Huizinga, che tratta del gioco come elemento fondamentale di ogni cultura e di ogni struttura sociale. L'ho fatto dialogare con Mark Fisher e con il concetto per cui il teorico britannico è più spesso ricordato, quello di realismo capitalista. Ho provato a chiedermi: e se il realismo capitalista non fosse che il risultato di un mondo che ha dimenticato l'importanza del gioco?
Buona lettura, se vi va
E anche oggi il caffè finisce qui.
Ci vediamo con il prossimo numero tra quindici giorni, oppure, per chi ci sarà, tra una settimana al Salone del libro.
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Alla prossima!