Bentrovati. Io sono Marcello Conti e questo è Caffè letterato, la newsletter che si occupa di giornalismo culturale e dintorni.
Ultimamente sto riflettendo molto sulla scrittura saggistica. Oggi ho tentato di mettere giù un po' di quelle riflessioni, sperando che possano risultare d’interesse anche per qualcun’altro.
Ma prima, come sempre, i link ad alcune delle cose più interessanti che ho letto questa settimana. Buona lettura!
Rassegna 🗞️
Nonostante quello che dice la geologia, la saga dell’Antropocene continua
A proposito di scenari apocalittici: come rappresentare la fine del mondo
I siti web di una volta sono morti, ma anche le piattaforme social non stanno benissimo
Ma parliamo di soldi
A propostio, e se i romanzi oggi invecchiassero troppo in fretta?
Scuolaposting, ovvero gloria e miseria del dibattito sulla scuola online
Due opinioni sull’uso artistico dell’Intelligenza artificiale
Qualcosa sulla scrittura saggistica
Inizio dicendo una banalità (proseguirò dicendone forse altre, ma sono cose su cui sto ragionando in questi giorni, e questa newsletter la uso anche come una sorta di taccuino per gli appunti pubblico): il bello di leggere è anche la possibilità di imbattersi in qualcosa che non stavi cercando in quel libro, ma che ti è comunque utile in quel momento.
Qualche giorno fa stavo leggendo Homo ludens di Johan Huizinga per un articolo che dovevo scrivere. E nella prefazione dell'autore ho trovato una frase che mi ha illuminato su un argomento intorno a cui sto riflettendo molto spesso ultimamente: la scrittura saggistica. Che cos'è? Quale è la sua essenza? O, in altre parole, cosa la distingue dalle altre forme di prosa non-narrativa?
Io credo che la risposta non sta tanto in aspetti formali, quanto in uno speciale atteggiamento in cui chi scrive si pone. E mi è sembrato di trovare questo atteggiamento ben sintetizzato in queste parole che Huizinga scrive sulla soglia del suo saggio:
È ormai destino di chi vuole trattare problemi culturali, di doversi arrischiare su diversi terreni che non conosce a fondo. Supplire prima a tutte le mancanze del mio sapere era escluso per me, e me la sono sbrigata rispondendo di ogni dettaglio per mezzo di rimando. Per me si trattava di scrivere o non scrivere. E di una cosa che mi stava molto a cuore. Perciò ho scritto.
Johan Huizinga era uno storico di fama mondiale. Ma Homo ludens era un opera ambiziosissima, un libro sul concetto di gioco che chiamava in causa competenze che andavano oltre la storiografia per sconfinare nell'antropologia, nella filosofia, nella critica culturale nel senso più ampio possibile del termine. Campi del sapere troppo ampi e variegati per essere dominati da una sola persona
Eppure Huizinga il libro lo scrive comunque, perché il suo oggetto è "una cosa che gli sta molto a cuore". L'urgenza di scrivere su quella cosa è più forte del timore di non possedere tutte le competenze per farlo adeguatamente.
Mi pare che sia questo lo specifico del genere-saggio: che è prima di tutto un "arrischiarsi", cioè una scommessa, un azzardo in cui si è consapevoli fin dall'inizio della possibilità di non essere all'altezza di ciò che si sta provando a fare.
Un saggio insomma, è sempre un tentativo. E qui - vi avevo avvertito - sto dicendo un banalità. Perché non sto facendo altro che riprendere l'origine della parola.
Il genere, infatti, nasce nel '500 con Montaigne che decide di definire Essais i suoi scritti, cioè letteralmente prove, esperimenti, tentativi.
La scrittura saggistica è un esperimento in diretta, il cui svolgimento è visibile a tutti. È sempre più o meno chiaro da dove si parte (voler scrivere su una certa cosa), ma è impossibile determinare a priori dove si arriverà. È un genere che è definito dalla sua incertezza. O, detto altrimenti, è un genere intrinsecamente avventuroso.
In questo si differenzia radicalmente da altre forme di scrittura con cui potrebbe essere confuso, come la scrittura accademica o il giornalismo (eccetto il giornalismo culturale che però - per come lo intendo io - nelle sue espressioni migliori non è davvero giornalismo, ma appunto una forma di saggismo breve) che, perlomeno quando sono ben fatti, prevedono un grande controllo sulla materia. Non ammettono che chi scrive proceda su terreni in cui non si sente pienamente sicuro e pretendono che quando si parte si abbia ben chiaro dove si andrà. Perché prima si trovano le risposte e poi si inizia a scrivere per riportarle. Nel saggio invece si inizia a scrivere per trovare le risposte.
Ogni saggio ha un suo oggetto. Ma il saggio non è, come si potrebbe essere portati a credere, una descrizione di quell’oggetto. È piuttosto la resa su carta del ragionamento che il saggista fa intorno a quell'oggetto. I suoi contenuti, dunque, sono sempre una scoperta, prima di tutto per chi scrive. È dunque un fraintendimento pensare che il suo scopo sia spiegare qualcosa (quello è compito della divulgazione semmai), ma è bensì quello di scoprire qualcosa.
Per questo il genere che gli è più affine è il romanzo. Non solo per l'assoluta libertà che caratterizza entrambi (sono generi che si possono più facilmente definire in negativo, parlando dei limiti che non hanno), ma anche per la loro natura di strumenti di conoscenza (che sevono, cioè, non per trasmettere conoscenza, ma per produrla). Milan Kundera, attribuendo la frase ad Hermann Broch, diceva che «la sola ragion d’essere di un romanzo è scoprire quello che solo un romanzo può scoprire». La stessa identica cosa vale per il saggio.
Dicevo che a determinare un saggio è soprattutto un certo atteggiamento. Ora, forse, possiamo definire quell'atteggiamento come la spinta del desiderio di scoprire qualcosa che seguendo vie meno avventurose non si rivelerebbe. Tale desiderio è l'unica cosa che giustifica la scrittura saggistica. Un desiderio di conoscenza che sintetizzò benissimo una grande saggista, appunto, come Joan Didion spiegando come mai scriveva: «Scrivo per scoprire che cosa penso, che cosa guardo, che cosa vedo e che cosa questo significa».
E pure questo caffè letterato è giunto al termine.
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