Bentornati su Caffè letterato, la newsletter che si occupa di giornalismo culturale e dintorni.
Dopo il numero scorso in "edizione ridotta" per colpa di problemi tecnici, recuperiamo oggi con un articolo piuttosto consistente in cui provo a dire la mia su un interessante dibattito in corso. Attendo di scoprire cosa ne pensate voi.
Dato che oggi siamo già usciti un po' più tardi del solito e c'è molto da leggere, non perderei altro tempo. Partiamo subito con la rassegna dei pezzi interessanti di questa settimana.
Rassegna 🗞️
Sono 82 i libri candidati al Premio Strega di quest’anno. Li trovate tutti qui
Un viaggio in Mongolia, alla ricerca degli sciamani
«La nozione di inganno banale aiuta a riconoscere che l’inganno non rappresenta un’eccezione nell’IA: al contrario, esso gioca un ruolo fondamentale nelle tecnologie di AI programmate per interagire con gli esseri umani»
A proposito di IA e inganni: l’ascesa delle celebrità virtuali
Il meglio di internet è nella foresta oscura
Sul mutamento antropologico causato dai social
C’è ancora domani e non solo: la rappresentazione del male nel cinema
La finale di scacchi più pazza del mondo
Appunti su un dibattito
Nelle scorse settimane è iniziato sulle pagine del quotidiano Domani un interessante dibattitto a proposito (per dirlo con estrema sintesi) della figura dello status della letteratura e degli scrittori oggi. Credo che valga la pena di approfondire alcuni spunti che emergono dai pezzi di Jonathan Bazzi e Tiziano Scarpa.
Realizzarsi e perdersi. La letteratura sta rinunciando al coraggio di Jonathan Bazzi è uscito il 24 febbraio. Nelle prime righe si presenta come un pezzo decisamente personale: la confessione - per altro molto franca - di uno scrittore in crisi («Scrivo poco, mi vengono idee che lascio nell’angolo, l’affanno è costante»). I problemi iniziano quando Bazzi tenta lo scatto dalla descrizione di una crisi personale a quella di un problema comune: «Molto di quello che mi sta succedendo credo abbia a che fare con lo spirito di questo tempo. Possiamo chiamarli social, società della performance, tardo-capitalismo, non so».
Già l'incertezza e la vaghezza con cui queste categorie vengono chiamate in causa a mo' di buzzword lascia presagire che l'articolo sta iniziando a scricchiolare. Innanzitutto ci si potrebbe chiedere: ma è davvero sempre giusta questa tendenza ad attribuire allo «spirito del tempo», alla società, al sistema le nostre difficoltà? Certo, Mark Fischer ci ha insegnato che il disagio psicologico spesso non è un problema esclusivamente individuale, ma anzi è una questione sociale e quindi politica. Una lezione importante e da tenere sempre presente quando si considera l'infelicità propria o altrui. Ma non c'è forse anche il rischio di applicarla con troppa meccanicità ad ogni caso e finire così di ingigantire e di proiettare all'esterno quello che in realtà riguarda soprattutto noi?
Mi sembra che sia quello che accade in questo articolo. Proseguendo Bazzi descrive così la sua carriera da scrittore: «Ho pubblicato un primo libro e ha avuto un’accoglienza del tutto inaspettata. Poi un secondo, che credo sia migliore del primo: è andato bene, ma non è stato un nuovo caso editoriale. Una dinamica normalissima e, allargando il campo per considerare l’intero percorso di un autore, perfino salutare. Ma in questo mondo, nel contesto psichico e culturale in cui siamo, una curva del genere è inaccettabile». Vorrei concentrarmi sull'ultima frase. In che senso una curva del genere è "inaccettabile"? Inaccettabile per chi? Ma davvero qualcuno intorno a lui (la casa editrice? I suoi lettori? I suoi amici?) gli ha fatto percepire di giudicare inaccettabile il fatto di non avere sfornato due casi editoriali di fila? Ma è davvero «questo mondo» e «il contesto psichico e culturale» o, più semplicemente, lui a non accettare la delusione di un secondo libro di minor successo del primo?
Bazzi allarga poi ulteriormente il campo per andare a parlare delle «deformazioni dello spazio pubblico che interessano tutti» e che corrompono la letteratura. «Il sistema in cui siamo incita al personal branding, ognuno è una piccola ditta di carisma, opinioni o virtù», scrive e non possiamo dargli torto. Effettivamente è così che funziona in quei palcoscenici dove l'identità diventa una performance che sono i social. Bazzi confessa di non sopportare il brand che gli è stato cucito addosso dopo il suo primo libro e che sembra averlo imprigionato nell'immagine di uno scrittore engagè che non coincide con le sue autentiche priorità artistiche.
Segue una pessimistica descrizione del dibattito pubblico e della presenza degli scrittori sui social: gli autori sembrerebbero sembrano impegnati soprattutto a costruire e imporre la propria identità di facciata online; ogni questione è ridotta a prese di posizione semplicistiche e a soffrirne è la creatività, perché, date queste premesse, a venire sacrificata è la possibilità di scrivere qualcosa di veramente coraggioso e inaspettato. Riporto i punti principali:
Per certi versi i social funzionano proprio così e infatti oggi vige un unico grande, discorso che si spalma ovunque, e che sfrutta le questioni politiche per il profitto e l’auto-sponsorizzazione. [...]
Più passa il tempo e più mi rendo conto quanto questo abbia a che fare anche la fine dello spazio creativo: oggi nessuno vuole più rischiare, tutti sono terrorizzati dal dire o fare qualcosa di anomalo o disturbante, dal perdere il sostegno della “community”.
Ma senza rischio l’arte, l’espressione personale, muore. Nei libri e nei film oggi cerchiamo soprattutto conferme: siamo così scossi e impauriti che pretendiamo di rivederci ovunque, empatizzare ovunque, essere coccolati dappertutto dalla stessa semplicità di schieramenti e giudizi che mirano ad annientare l’altro. [...]
E vedo, dall’altra parte, giovani scrittori comportarsi come pierre impazziti, schiavi dell’istigazione costante all’esibizione del trofeo del giorno: guardate chi ho intervistato, che premio ho vinto, che traduzione straniera sta per uscire.
Tendiamo a parlare solo di ciò che già funziona, a cercare nel consenso già in circolo un boost per il nostro. La spinta che ci anima è una e sempre la stessa: esistere di più sotto lo sguardo altrui, ma la luce dell’esposizione a tutti i costi umilia il pensiero, non consente di riflettere e raccontare davvero. Non lo sapevo, ora lo so. E non so più che fare.
Ora, io non credo che queste analisi siano sbagliate. Anzi, penso che fotografino con una certa precisione dinamiche molto diffuse oggi. Quello che contesto è la maniera in cui questo panorama viene assolutizzato. Sui social funziona soprattutto così, va bene, ma davvero esistono solo i social? Non esistono più alternative o forme di resistenza a questo stato di cose?
Bazzi depreca i social e lo fa con ottimi argomenti, ma contemporaneamente sembra avere il limite di guardare al mondo esclusivamente attraverso lo spioncino dei social stessi. Non per nulla tutto l'articolo ricorda i toni di un "genere" molto in voga tra gli influencer: quello del video-sfogo, in cui si lamentano le difficoltà e le frustrazioni di stare al passo coi social media.
L'articolo si conclude con una pars costruens piuttosto debole e vaga: «Vorrei si guardasse però con più coraggio allo spazio comune. Hannah Arendt amava fare appello all’“amor mundi”: rendiamo il mondo un posto un po’ meno irrespirabile, coltiviamo relazioni e interessi per il puro piacere di farlo, torniamo ad avere la voglia di azioni diverse dall’autopromozione e dal calcolo». Ma forse più che auspicare che il mondo cambi (probabilmente non succederà), sarebbe più saggio riflettere su come si può cambiare se stessi all'interno di quel mondo, come ci si può muovere in modo diverso. Invece che attendere che il luogo dove si sta diventi «un po' meno irrespirabile», sarebbe il caso di cercare posti dove l'aria è migliore. Ma nel suo articolo Bazzi non prova neanche a chiedersi se questi posti esistono e quali sono. Critica un sistema ma anche si mostra totalmente arreso ad esso.
Mi pare che implicitamente sia questo il punto che emerge dal pezzo di Tiziano Scarpa, apparso sempre su Domani pochi giorni dopo e impostato come una risposta a Bazzi.
«All’origine della sofferenza di Bazzi, io penso, c’è un piccolo inconveniente: la letteratura», scrive Scarpa, sottintendendo che forse un certo senso di inadeguatezza, di disarmonia con il mondo è connaturata alla condizione dello scrittore. Bazzi lamenta il disagio che prova nel sistema vigente, Scarpa ipotizza che quel disagio, per quanto comporti sofferenze, sia un vantaggio per uno scrittore e forse addirittura una condizione necessaria: «È quella [la letteratura] il problema, non i social o il mercato. Noi ci aspettiamo che scrittori e scrittrici espongano la loro parola dissenziente [...] In letteratura si emerge per l’originalità della propria voce, per i suoi contenuti anticonvenzionali. Perciò è inevitabile che a scrittori e scrittrici (quelli onesti, non gli opportunisti) sia riservato un destino interiore di idiosincrasia e solitudine, perfino quando si affermano. Pasolini lo diceva di sé, ma potremmo trasporre le sue parole a tutti gli autori e autrici letterari: "La mia indipendenza, che è la mia forza, implica la solitudine, che è la mia debolezza"».
Ma cure (parziali) per questa "solitudine necessaria" esistono. Scarpa ne riporta due di cui può parlare facendo riferimento alla propria esperienza personale: il "fare gruppo" tipico delle avanguardie (soluzione oggi forse un po' troppo vintage per essere presa davvero sul serio) e il lavoro intorno a riviste letterarie (e qui Scarpa può offrire ottimi esempi essendo stato protagonista nella nascita di due realtà molto importanti della "prima ondata" di blog e riviste culturali italiane: Nazione indiana e Il primo amore).
Al di là delle singole esperienze, il punto qui è che Scarpa propone quelle che sono forme di socialità e condivisione ancora possibili (anzi, che oggi sono potenziate dai nuovi mezzi di comunicazione) e alternative al desolante mondo dei social descritto da Bazzi. Sono spazi reali (che esistono o possono essere costruiti) in cui accadono cose reali, in cui si discute, ci si confronta, si crea, insomma si fa cultura o almeno si ha la possibilità di farla. Si tratta di una scoperta ovvia, eppure di cui oggi è facile dimenticarsi: oltre al mondo fittizio dei social (fittizio non perché virtuale, ma perché dominato da dinamiche che spingono verso l'inautenticità) esiste ancora la realtà. Cerchiamo di coltivare quella.
Una citazione per concludere 🖋️
Nove volte su dieci un libro di cui si parla, o un concetto che è esploso, nel giro di sei mesi è defunto. Quindi basta aspettare sei mesi e occuparci di quel residuo concetto che non è morto: ne è rimasto uno su dieci. Credo che non ci sia modo migliore di essere disinformati che quello di essere perfettamente aggiornati.
Giorgio Manganelli, Discorso sulla cultura
E anche per oggi il caffè finisce qui.
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